Pagine di cultura gastronomica
A cura di Francesco checcus Danieletto
Ho creato questo blog gastronomico, per condividere ricette di qualsiasi genere, mie e di quanti contribuiscono in rete a divulgare esperienze culinarie personali o tratte da libri, come ho fatto io con questa mia ricerca sulla cucina veneta e di Venezia in particolare. Saranno graditi i vostri commenti e le eventuali osservazioni, come pure nuove proposte culinarie da voi sperimentate. Ciao a tutti, checcuschefcookVenezia, i suoi commerci e le sue tradizioni culinarie.
Vivere in Veneto e parlare di cucina, vuol dire parlare di Venezia e non solo; dei suoi luoghi incantevoli, della sua immagine immutabile nel tempo ma soprattutto degli odori, dei profumi, dei sapori, delle sue tradizioni gastronomiche.
La prosperità della Repubblica, crocevia di commerci dal misterioso oriente, alla florida Europa, non può fare di Venezia una capitale a sé stante, bensì legarla alle civiltà che si affacciano sul mare Adriatico, da lei influenzate e dalle quali ha tratto i necessari approvvigionamenti, con i prodotti della loro terra, degli orti, con isole e lagune che spaziano da Chioggia a Caorle; vale per tutti il vecchio detto che a Venezia non si produce nulla ma trovi tutto quello che chiedi. La sua forza era nei traffici, con i commercianti che arrivavano da tutta Europa, vendendo merci a basso prezzo e comperando, viceversa, prodotti di altissimo valore aggiunto, da rivendere poi in Francia, Germania, Spagna. E’ quindi naturale che la sua cucina, di elementare semplicità, riceva influenze e abitudini bizantine, che, assieme alla grande stagione delle droghe, delle spezie, dello zucchero, si inventa un mangiare dolce e salato, riccamente speziato e invidiato da chi aveva il privilegio di assaggiarlo.
Nel XV e XVI secolo, l’eccellenza gastronomica europea era Italiana, con al vertice, Venezia, Firenze e Roma, ecco quindi i numerosi libri riguardanti la gastronomia, dati alle stampe in quei tempi in città, vere opere classiche come: “L’Epulario” di Giovanni Rosselli che rivoluziona la cucina rinascimentale italiana, rendendola pratica e semplice e la cui prima edizione sembra risalire ai primi del 500; oppure la riproposizione di quei piatti relativi alle abitudini gastronomiche delle Corti italiane e abilmente “rinominati” dai francesi che si appropriarono della paternità. Ecco quindi il savore diventa “sauce”, la colla “Bechamel”, il potacchio “potage”, il papero con limoncelli e aranci, diventerà “le canard à l’orange”; oltretutto la cucina francese di quell’epoca era piuttosto squallida, con qualche rara influenza italiana ma ancora dominata dalle abitudini Anglosassoni, ovvero un pezzo di carne abbrustolito sul fuoco e mangiato mezzo crudo.
Dopo la caduta della Serenissima, tra la fine dell’800 e inizio 900, prende fisionomia una cucina popolare e povera che trae spunto dalle vecchie tradizioni, per creare un ospitalità ricca ed elegante, con nuove interpretazioni gastronomiche quasi esclusivamente veneziane, contagiando quelle che erano le abitudini di una cucina internazionale; a questo proposito è d’obbligo citare Arrigo Cipriani che, partendo dal suo piccolo Harry’s bar ha riproposto piatti di una semplicità unica, basati su ricette venete, perfezionandone gli ingredienti con dettagli di accuratezza da “Grande cuisine”.
1° Continua
29 ottobre 2012
Ora, venendo ai giorni nostri, e, fermo restando che un buon oste dovrebbe fare qualcosa di più che saziare il cliente di turno, sarebbe bello ritornare all’origine di certe ricette; magari rileggendole con più cura, evitando così di riproporre, in nome della “venezianità” quel trionfo di demagogia culinaria denominato: “Risotto alla pescatora” o “alla marinara”, con gli immancabili spaghetti alle vongole “veraci”, o altre ricette spacciate per cucina nostrana, in barba a chi, non avendole mai mangiate, non riesce a dare un giudizio valido. Non me ne vogliano i ristoratori, non è certo mia intenzione generalizzare, banalizzando tutta la categoria ma se una cucina nasce povera, o si riesce a nobilitarla con fantasia e abilità, o rimane tale e serve solo a far soldi, a scapito di chi vuol concludere una meravigliosa giornata passata tra Venezia e le ville dell’entroterra. Proverò a seguire un percorso che ci porterà a conoscere il trionfo della Serenissima in quello che è stato il suo commercio principale, gelosamente controllato dal suo governo: droghe, spezie, sale, quanto cioè di più prezioso potesse esserci a quel tempo, quale merce di scambio tra una città, che, a buon diritto, si poteva considerare una vera Casbah del nord, divisa cioè tra la sua vocazione bizantina e i suoi traffici con il resto dell’Europa. Parlerò della testimonianza del “disnar” veneziano nelle commedie del Goldoni, attento e scrupoloso interprete dell’anima popolare anche nel cibo quotidiano; dei forneri e pistori, pasticceri e scaleteri, dei caffé veneziani, della cioccolata, della cucina ebraica che tanta influenza ha avuto nel mangiare veneziano e infine dell’aquila a due teste che decretò la fine della Serenissima Repubblica dopo più di mille anni di storia. Proporrò ricette semplici ma purtroppo ormai quasi in disuso e che sopravvivono ancora tra qualche vecchio che a sua volta le ha ricevute, tramandate di generazione in generazione; quando avremo finito il percorso culinario su Venezia passeremo all’entroterra.
Il caffé arriva a Venezia nel 1640, come medicinale, ed era
venduto a carissimo prezzo dai farmacisti; con l’aggiunta di zucchero divenne
una bevanda non solo per gli ammalati ma anche per la gente sana, tanto
che cominciò a essercene un discreto
consumo e nel giro di vent’anni divenne di uso corrente. Nel 1683 si apre in
piazza S.Marco, sotto le Procuratie Nuove, la prima bottega per la vendita
esclusiva di caffé; ne seguiranno molte altre negli anni, fino al 1720, quando
viene aperta la bottega della “Venezia Trionfante”: nome pomposo per una città
ormai in decadenza ma che, fondata da quel tale Floriano Francesconi, diventerà
il caffé principale della città e, forse, il più celebre del mondo, arrivato ai
giorni nostri con il nome di “Florian”. La cioccolata o “chioccolato”, leggendo
la ch come “c” dolce, la si realizzava non sciogliendo la polvere di cacao con
lo zucchero nell’acqua, (quasi mai latte) ma usando un preparato già pronto,
una specie di cioccolato fondente in pezzi, fatto con zucchero e qualche
addensante che commercialmente veniva detto “capoé”; si aggiungeva secondo il
gusto, aroma di spezie, in special modo cannella.
IL VOLTAIRE
Si versa in un pentolino un litro di buon caffé bollente, si
aggiungono 200 gr. di cioccolato fondente a pezzetti e si mescola il tutto con
un cucchiaio di legno sino a che il cioccolato sia sciolto, a questo punto si
uniscono 200 gr. di zucchero, si rimescola ancora e si passa il tutto in una
cioccolatiera mantenuta al caldo e rimescolando ogni volta che si versa in
tazza.
CIOCCOLATA GOLDONIANA
In mezzo litro di acqua, tagliare a pezzetti 200 gr, di cioccolato
fondente,
aggiungere 50 gr. di zucchero e un cucchiaino raso di maizena,
gradevole l’aggiunta di un cucchiaino raso di cannella in polvere, e un pizzico
di vaniglia.
Dopo sciolto, portare a bollore frullando con una frusta e
mantenere l’ebollizione per almeno 4 minuti. Servire bollente; un pizzichino
minimo di sale rende la bevanda più saporita.
N.B. Da bandire assolutamente i preparati in bustina del
supermercato.
CAFFE’ DE COLO E CIOCCOLATO DE CULO
Detto popolare che spiega essere migliore il caffé della parte
alta della cuccuma, essendovi sul fondo appunto i “fondi” del caffé macinato;
decisamente più buona la cioccolata de culo perché sul fondo della
cioccolatiera c’era la parte più densa.
CREMA DA FRIGGERE
Far bollire un litro di latte con rapatura di limone e una
stecca di vaniglia, lasciare raffreddare e filtrare. Battere 8 tuorli con 250
gr. di zucchero, aggiungere 300 gr, di fior di farina, mescolare, incorporare
il latte e le chiare montate in fiocca. Cuocere a fuoco lento, mescolando in
continuazione; come la crema sia ben densa versarla in una placca e lasciarla
raffreddare, tirandola dello spessore di un pollice o poco più. Tagliarla
quindi a piccole losanghe o dadini, friggerla come una comune frittura e servirla
cosparsa di zucchero o volendo di zucchero e cannella.
2 continua
03 novembre 2012
Pesare le uova e sbatterle in una terrina. Aggiungere
zucchero per metà del peso delle uova e un eguale peso di burro. Diluire con un
bicchierino di grappa o Marsala o altro per ogni uovo, poi impastare con farina
mescolata al sale occorrente, aggiungendone tanta da ottenere una pasta da
lavorare come quella delle tagliatelle. Si taglia la pasta sfoglia con la
rotellina a losanghe (i crostoli) praticando due incisioni centrali per il lungo,
oppure a striscioline larghe due dita (galani) che poi si annodano prima di
immergerli nell’olio. Cospargere di zucchero a velo
03 novembre 2012
2
Verso la fine del 500, tale
Tommaso Gorzani scrivendo nel suo “Piazza universale dei mestieri”: “De fornari
o panatieri, et confettinari, e zambellari e offelari, e cialdonari, ci da una
lunga lista di quanto si produceva a Venezia, stranamente non parlava di “pistori”
e “scaleteri”, chiamati da sempre a Venezia i fornai e i pasticceri; se da un di
lato “pistor,” parola di derivazione latina mantenuta nel suo significato dalla
lingua popolare veneziana, significa colui che prepara, cucina e vende il pane,
“scaleteri”, termine già di per sé strano che vale per venditore di “scalette”,
(probabilmente dolci molto popolari la cui ricetta si è persa nel tempo), viene
tradotta in ciambellaio, cialdonaio, cantucciaio e deriva da “scalète”, ovvero
quella specie di pane condito con zucchero e burro che assomiglia nella forma
alle “azzimelle” pasquali degli ebrei, fatte ancora oggi.
Nella grande varietà di dolci
popolari veneti, si spazia dal pane con l’uva, protagonista di merende
scolastiche di tante generazioni, agli zaleti, dai pandoli ai forti o pevarini;
tutta una serie di dolci a base di
mandorle, pignoli, dai “buffi” alle “fave per i morti”, “amaretti”,
“mandorlati”, “croccanti”.
Venezia è stata, in assoluto,
la prima maestra nella lavorazione dello zucchero, fin dal 1541; celebri le
“sirele de zucaro de orzo”, dei “diavolini”, dei confetti farciti di pezzetti
di cannella, chiodi garofano, pistacchio, mandorle; oppure più piccoli, ripieni
di semi d’anice, caffè, foglie di rosmarino, di coriandolo, cioccolato. Molto
frequenti e purtroppo ormai quasi scomparsi, i “raffioli” e i “naffioli” dolci,
fagottini di pasta da “crostoli” ripiena di confetture, fritti o cotti al
forno.
Dolcezze della Serenissima ed
elogio della frittola.
Se la vera autentica frittola
è quella veneziana, bisogna però aprire una parentesi tra quello che è un
tipico dolce di carnevale e quello che invece per i veneziani significava il
loro perenne peccato capitale di gola: gola ciarliera e vivace che non ha
niente in comune con il mangiare e la successiva digestione pesante degli
inglesi o tedeschi. E’ il simbolo più giusto di quest’allegria scoppiettante,
che si gonfia e balla al calore dell’olio nella padella, oltretutto di semplice
preparazione, ovvero pasta di pane, fior di farina e lievito con pochissimo
zucchero, aromatizzata con liquore e l’aggiunta di pinoli e uva passa. Senza
contare che per “frittola” si intende tutto quello che si gonfia friggendo,
quindi le varianti con la zucca, gli stessi fiori di zucca, mele, polenta,
patate, oppure salate con gamberetti, polpa di pesce, baccalà in pastella; nel
veneto e a Venezia tutto può diventare frittella come nella cucina cinese del
resto con la quale da Marco Polo in poi ha avuto stretti legami.
Parlando del pane, per
comprendere quale tipo si mangiava a Venezia, bisogna osservare certi mosaici
di S.Marco che ci tramandano le forme che i veneziani fin dal XII secolo
mettevano in tavola. Sono dei pani non molto grandi, con un nome che si è
tramandato nei secoli fino ad oggi, vale a dire i “bovoli”, dalla
caratteristica forma a chiocciola; a questi ne seguiranno altri, le “bine”
rotonde che attaccate tra loro, diventano poi pane unico, ovvero le “ciope” o
“ciape” per la somiglianza con i glutei; fino ad arrivare in epoche più recenti
alle “rosette”, pane leggerissimo, molto lievitato, ovvero quel “pan francese” di
così largo successo nel XVIII secolo. Senza dimenticare il “pan tedesco”, del quale
il “montasù” e la “dressa” (treccia) avevano la peculiarità di essere lucidati
con uovo battuto; pane comunque quasi sempre impastato con latte o strutto,
come certi panini al Kummel chiamati “semenze”. C’era il “pan bianco” di fior
di farina abburattata e il “pan traverso” fatto con farina integrale o con la
crusca; per legge i pistori non potevano cuocere i due tipi di pane nello
stesso forno: era severamente vietato, come pure grande importanza veniva data
al pane biscotto, essenziale per i soldati e la ciurma delle navi, che trasformato
in briciole (frisopo) e bagnato in un qualsiasi liquido commestibile, diventava
il loro rancio quotidiano. Ne conseguiva che i forni dove veniva prodotto il
pane biscotto erano gestiti direttamente dallo Stato, tanto che nell’isola di
S.Elena, la Serenissima
ne aveva fatto costruire 34 e il prodotto era di tale perfezione e qualità che
nel 1821 in
Candia, se ne trovò traccia in un piccolo deposito risalente alla cessione
dell’isola ai Turchi nel 1669: si creda o no era ancora commestibile e
gradevole al gusto.
Si mangiava comunque più
polenta che pane; specie nella cucina popolare veneziana, gli abbinamenti erano
più con quest’ultima: con il “pesse”, “polenta e tocio”, “formaio”, “fighi”, “polenta
con tutto”….. per la povera gente. Mentre invece: “pan e nose xe pasto da
Dose”.
Ricettario
Pandoli
Dosi: fior di farina 9 etti,
zucchero 1 etto, burro 2 etti, lievito 1 etto, sale, tre o quattro uova.
Esecuzione: sciogliere il
lievito in poco latte tepido con qualche cucchiaio di farina, lavorarlo,
aggiungere poi il burro sciolto, lo zucchero e le uova battute, impastando con
il resto della farina e poco sale. Lavorare la pasta con le mani; poi farne dei
pandoli come focaccette di forma allungata e piuttosto strette. Deporle su una
piastra imburrata e cuocerle al forno non troppo caldo.
Tortion
E’ una specie di edizione
veneziana dello strudel austriaco. Si tira una sfoglia sottile con 400 gr. di
farina, quattro cucchiai d’olio, due uova e 50gr. di zucchero. Si tagliano a
fettine delle mele, sbucciate e mondate, si mescolano ad uvetta sultanina,
pezzetti di cedro candito, pinoli, pezzetti di biscotto, si irrora il tutto con
burro fuso e lo si cosparge di cannella e zucchero. La si pone sulla sfoglia
che si arrotola formando un serpentone, che si porrà in un a placca dandogli la forma di un ciambellone.
Pennellare la superficie con chiara d’uovo battuta e zucchero e passare al
forno per mezz’ora.
Bussolai
! kg. di farina, 200 gr. di
burro, 200 gr. di zucchero, lievito di birra. Si procede come per l’impasto del
pane, formando poi i bussolai grossi come un dito mignolo e lasciandoli
lievitare. Poi si passano al forno non troppo caldo. Insaporire eventualmente
con anice. Se impastati con il vino bianco riescono migliori.
Frittole
Dosi: 200gr. di farina, 50gr.
di zucchero semolato, 50gr. di uvetta, 10gr. di lievito di birra, 2dl. di
latte, 1 uovo, zucchero vanigliato, sale, olio per friggere.
In una terrina amalgamate la
farina, l’uovo, il sale, l’uvetta (fatta rinvenire in acqua tepida) e il
lievito diluito in metà latte. Lavorate bene l’impasto aggiungendo il latte
rimasto fino a che otterrete una tenera pasta. Coprite e lasciate lievitare in
ambiente umido e tepido per circa un ora. Friggetele a cucchiaiate poche alla volta
fin che non diventano dorate e cospargetele di zucchero a velo.
Frittole di zucca
Arrostire un bel pezzo di
zucca , poi tagliarla a pezzetti e farla asciugare. Far bollire mezzo litro di
latte con una scorzetta di limone e buttarvi tutta in un colpo 170 gr. di fior
di farina con un pizzico di sale. Rimescolare sempre finchè non vi siano grumi
e la pasta sia filante. Passare al setaccio la zucca ricavandone 200 gr. che
verranno mescolati alla pasta ancora calda, poi lavorando a lungo col cucchiaio
di legno aggiungere almeno 5 uova, una alla volta. Far rinvenire nel rhum 75
gr. di uvetta e mescolarla all’impasto. Volendo aggiungere un pizzico di
cannella.
Crostoli o galani